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Racconti… (lettera firmata all'interno del volume “Il sorriso dei ricordi. Storie di vita” a cur


All'improvviso la malattia palesò presto tutta la sua gravità. Dapprima i sintomi sembravano semplicemente i segni ineludibili della terza età: i rubinetti del gas dimenticati aperti, il non accorgersi di passare con il braccio sui fornelli accesi con il rischio di far prendere fuoco ai vestiti, il non riuscire a riaprire una porta chiusa a chiave. Poi, un po’ alla volta, il quadro si arricchiva di nuovi scompensi: il linguaggio ripetitivo, la perdita di vari oggetti, i pasti lasciati a metà per mera distrazione la percezione sempre più alterata delle diverse fasi della giornata, il carattere che si inaspriva in una reattività a volte anche violenta, il rifiuto testardo ad essere assistita da una badante, il diradarsi di ogni relazione interpresonale.

Eppure tutto ciò che sembrava ancora soltanto il segno di un degrado fisico e mentale che alla sua età colpisce tutti, alzatasi dal letto, non riconobbe più casa sua.

Allora cominciò un periodo davvero duro.

Non si poteva più allentare il controllo: a tutti i pericoli di prima si aggiungevano ora improvvisi tentativi di “partenza” per il paese natale di cui manteneva un ricordo antico e vago.

Eppure, dopo qualche ora, ritornava in se stessa.

Ammutoliva, preoccupata e sorpresa da quelle sue stranezze che per qualche tempo cessavano di manifestarsi e ci lasciavano l’illusione che si trattasse di episodi sporadici, suscettibili di remissione che, tutto sommato, potessero ancora consentirle di mantenere grosso modo le sue abitudini.

In questo contesto, la frattura del femore, causata da un’inspiegabile caduta, costrinse ad un intervento chirurgico e ad una degenza ospedaliera che le costrinse ad un intervento chirurgico e ad una degenza ospedaliera che le determinarono un vero e proprio choc. Da allora, infatti, rapidamente passò da una forma di agitazione incontenibile, e a volte violenta, all'afasia, alla depressione fino a sfiorare una vera e propria cachessia. Fu da questo punto che dovetti arrendermi all'evidenza dell’impossibilità di assicurarle in casa un’assistenza adeguata e cominciò la ricerca di un posto che fornisse un’accoglienza rispettosa della sua personalità indebolita.

Non coltivavo l’illusione di trovare cure fantasiose che potessero ricondurre mia made a ciò che era stata, ma ero preoccupato di incappare in uno di quei posti dove il malato è solo una cartella clinica ed è violata la sua stessa dignità di persona. Cercai un po’ dappertutto: case di cura, ospizi, case famiglia eccetera. Fatto è che presso le strutture di buona fama o non vi erano posti disponibili o mi sentivo rispondere che le condizioni di mia madre non erano compatibili con l’assistenza che erano in grado di fornire.

La fortuna o la provvidenza ci fece incontrare la Rsa Monsignor Messina di S. Eufemia. Mia madre ci arrivò in barella in una fredda ma soleggiata giornata invernale. L’impressione immediata che ne riportai era di un posto che almeno a prima vista possedeva tutti quei requisiti che avevo faticosamente ricercato. Ma la commozione, il senso di sconfitta per aver dovuto alla fine “sistemarla” fuori casa prevalevano sul sollievo per quell'aiuto trovato proprio quando la situazione era ormai divenuta insostenibile per il senso di solitudine e impotenza ad affrontare una malattia che ogni giorno di più erodeva ciò che restava di una personalità autonoma, volitiva e consapevole.

Con cortese disponibilità venni subito informato delle metodiche terapeutiche adottate dalla Rsa: eliminazione o estrema riduzione degli psicofarmaci, terapia del sorriso, sollecitazione alla socializzazione, terapia con piccoli animali, impegno manuale, organizzazione di eventi ricreativi addirittura anche di attività recitativa, eccetera.

Confesso che ascoltavo tutto ciò soprattutto per doverosa cortesia ma disilluso e ben poco persuaso dell’efficacia di quanto mi veniva illustrato: ormai avevo sperimentato che nulla sembrava servire a migliorare realmente le condizioni di salute di mia madre, irrimediabilmente compromesse da una forma di demenza senile.

All'epoca aveva perso ogni ricordo degli ultimi 50 anni della sua vita e mi conosceva a fatica, confondendomi spesso per il padre morto già da 50 anni o per il fratello anche lui deceduto alcuni decenni addietro. Per il resto non si riusciva a farle recuperare alcun punto di riferimento sugli altri rapporti personali e ambientali che avevano caratterizzato la maggior parte della sua esistenza.

Mi consolava comunque il pensiero che almeno era ospitata in un ambente pulito e ben

decoroso, capace, nonostante il disagio e la sofferenza, di offrire un clima sereno, quasi familiare, a volte anche agio.

Fui sorpreso come, dopo un primo periodo di naturale adattamento durato qualche mese, mia madre, superando quella sua naturale ritrosia resa dalla malattia un’ostinata chiusura al mondo esterno, cminciasse a manifestare i segnali di una positiva interazione con l’ambiente, accettando la compagnia degli altri degenti e del personale infermieristico e partecipando, seppure per brevissimi tempi, alle iniziative di socializzazione.

Mi accorsi che la costante attenzione che nella struttura sanitaria si poneva ad evitare momenti troppo lunghi di isolamento e la sollecitazione frequente alla conversazione, alle attività manuali, in particolare nella cura dei piccoli animali, e allo stimolo dei ricord, stava producendo risultati insperati nella ricostruzione della sua personalità. Con il tempo la generosa affidabilità di tutto il personale sconfisse anche la reattività che ormai riaffiora solo in occasione di quegli eventi avvertiti come perturbativi della sua attuale condizione ma ciò che più sorprende è il tentativo che prende corpo per ricostruire un serbatoio dei ricordi perduti.

Certo, si tratta soltanto di utilizzare come se fossero ricordi propri e a volte soltanto per brevi ricordi quei fatti della sua vita che costantemente ripongono alla sua memoria ma anche questo era del tutto impensabile slo un anno addietro. Sul piano della consapevolezza la casa che ospita, non più percepita come in precedenza come la sua casa familiare, viene ora vissuta come la sua condizione di vita di sempre, unica e naturale. Per questo spesso considera di sua proprietà gli oggetti e i piccoli animali, vive i rapporti con il personale medico e assistenziale nella dimensione della familiarità e assume la presenza degli altri pazienti nella condizione di spontanea convivialità. Oggi mia madre, pur nel baratro della perdita della memoria del suo passato, sta riconquistando grazie a quelle strane metodiche una serenità d’animo e una soglia di consapevolezza del contingente capace di entusiasmarla ad una vita che per quanto mutilata sa ancora esprimersi nella tenerezza di un sorriso.




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